QUANDO SI INTEGRA IL REATO DI DIFFAMAZIONE SUI SOCIAL NETWORK?
La diffusione dei social network ha posto l’ordinamento di fronte al problema di rinvenire i mezzi idonei per tutelare gli utenti. Gli strumenti attualmente a disposizione per difendersi da reati come la diffamazione sono stati pensati per i mezzi di comunicazioni ordinari e spesso sono insufficienti a fornire un’adeguata tutela al di fuori dall’ambito di applicazione loro proprio.
La giurisprudenza si è trovata a dover bilanciare interessi contrapposti, il diritto di manifestazione di pensiero da un lato e il diritto all’integrità e all’onore dall’altro. Molto spesso gli utenti dei social network non hanno una piena e reale consapevolezza delle potenzialità dei mezzi di comunicazione che utilizzano, realizzando ipotesi di reato o trovandosi in situazioni al limite della legalità.
L’art. 595 c.p., che disciplina la diffamazione, stabilisce che “Chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a milletrentadue euro. Se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato, la pena è della reclusione fino a due anni, ovvero della multa fino a duemilasessantacinque euro. Se l’offesa è recata col mezzo della stampa [57–58bis] o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico [2699], la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a cinquecentosedici euro. Se l’offesa è recata a un Corpo politico, amministrativo o giudiziario, o ad una sua rappresentanza, o ad una Autorità costituita in collegio [342], le pene sono aumentate”.
La Corte di Cassazione si è espressa diverse volte in merito alle condotte che integrano il reato di cui all’art. 595 c.p. quando tenute in rete.
L’orientamento consolidato afferma che la diffusione di messaggi diffamatori per mezzo dei social network soddisfa le condizioni prescritte al comma 3, concretizzando così l’ipotesi di reato aggravata. Da ultimo la V Sezione Penale della Corte di Cassazione, con sentenza n. 8328 del 01.03.2016, ha affermato che “anche la diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di una bacheca “Facebook” integra un’ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell’art. 595 co. 3 c.p., poiché ha potenzialmente la capacità di raggiungere un numero indeterminato di persone, sia perché, per comune esperienza, bacheche di tal natura racchiudono un numero apprezzabile di persone (senza le quali la bacheca Facebook non avrebbe senso), sia perché l’utilizzo di Facebook integra una delle modalità attraverso le quali gruppi di soggetti socializzano le rispettive esperienze di vita, valorizzando in primo luogo il rapporto interpersonale, che, proprio per il mezzo utilizzato, assume il profilo del rapporto interpersonale allargato ad un gruppo indeterminato di aderenti al fine di una costante socializzazione”.
Con sentenza n. 13604 del 24.03.2014, la Cassazione ha precisato che per realizzare un’ipotesi di diffamazione non è necessario riferire l’offesa ad una persona identificandola compiutamente ma è sufficiente anche un’allusione, se il soggetto risulta comunque facilmente individuabile.
Non basta, invece, aderire al pensiero diffamatorio altrui senza esprimersi in termini offensivi in via diretta. La Cassazione ha infatti ritenuto che la semplice adesione al pensiero altrui mediante “condivisione” sia una legittima manifestazione di pensiero garantita dall’art. 21 della Costituzione. “La Corte territoriale in sostanza attribuisce tipicità ad una condotta ritenuta intrinsecamente inoffensiva solo perché la stessa dovrebbe considerarsi indirettamente e implicitamente adesiva a quella diffamatoria commessa in precedenza da altri in quanto a sua volta il T ha esternato un’opinione critica nei confronti del M. Il che è per l’appunto errato nella misura in cui, per un verso, attribuisce all’art. 595 c.p. contenuti ultronei rispetto a quelli effettivamente ricavabili dalla lettera della disposizione incriminatrice e, per l’altro, finisce per negare qualsiasi effettività alla libertà di manifestazione del pensiero garantita dall’art. 21 Cost” (Cass. Pen., Sez. V, sent. del 29.01.2016, n. 3981).
Oltretutto, una volta pubblicato il contenuto offensivo, non sarà sufficiente rimuoverlo per evitare l’addebito: la persona offesa avrà la possibilità di provare la presenza del contenuto diffamatorio anche per mezzo di testimoni.